LI SORPRESERO ALL’ALBA

Sirio Corbari, Adriano Casadei, Iris Versari, Arturo Spazzoli, Tonino Spazzoli

Li sorpresero all’alba del 18 agosto nel casale di Cornio, sulle colline tra Modigliana e Tredozio. Iris, già ferita a una gamba, si tolse la vita sperando di agevolare la fuga dei compagni, mentre Arturo fu colpito e catturato quasi subito. Silvio, saltando da una finestra, si ferì gravemente e Adriano, già salvo, decise di non abbandonarlo, tornando indietro e restando con lui fino alla fine. Il corpo senza vita di Iris fu trascinato per i capelli fuori dalla casa e gettato sull’aia. Durante il tragitto verso Castrocaro, i fascisti uccisero Arturo perché infastiditi dai suoi lamenti e una volta in paese, impiccarono Silvio e Adriano. Il corpo di Iris giunse poco dopo, disteso su una scala appoggiata su un’auto. I corpi dei quattro partigiani furono poi trasferiti a Forlì e appesi una seconda volta ai lampioni di Piazza Saffi, per mostrare a tutta la Romagna che l’imprendibile Corbari, la ribelle Iris Versari e gli amici Adriano Casadei e Arturo Spazzoli erano stati uccisi.

I fascisti sorridevano e facevano apprezzamenti sulle lunghe gambe di Iris, mentre la popolazione osservava inorridita. Il giorno dopo li portarono al cimitero e li chiusero in quattro bare con i cappi ancora al collo e le mani legate. Sulle casse furono scritti i loro nomi, soltanto quella di Iris fu calata nella fossa senza nome. Un becchino scrisse solamente “donna”.
Mia nonna c’era, non era in piazza e non era al cimitero, ma ricordo che un giorno, prendendo tra le mani un libro sulla Banda Corbari, disse “Io me lo ricordo quel giorno, ma in piazza non ci sono andata, perché sapevo che avevano impiccato una donna, e una donna trattata così non era una cosa da andare a vedere.”

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UNA IN TIPOGRAFIA E UNA IN SOLAIO

9 novembre ’44, ingresso dei mezzi Alleati in Piazzale della Vittoria imboccando la rotonda a sinistra, con guida all’inglese

A Forlì erano numerose la tipografie clandestine che stampavano volantini e giornali antifascisti: c’era la tipografia Raffaelli nei locali del palazzo vescovile, la Varoli in corso Diaz, la Valbonesi in via Torelli, la Croppi in via Hercolani, oltre alla tipografia del Partito Comunista divisa tra Borgo Sisa e Carpinello. Tra queste c’era anche la Tipografia del Littorio, che aveva sede direttamente nei locali della Federazione Fascista forlivese e ufficialmente lavorava alla stampa di partito pubblicando il giornale Il Popolo di Romagna, ma clandestinamente stampava anche per il Comitato di Liberazione Nazionale. Ciò fu possibile grazie a un incontro segreto tra gli operai e alcuni antifascisti, ritenendo che il posto più sicuro per la stampa antifascista fosse paradossalmente proprio il luogo dove si stampava per i fascisti. Così si cominciò a lavorare anche di notte, con due brigatisti neri di guardia che, ignari di tutto, si complimentavano con gli operai quando sentivano le macchine in funzione oltre l’orario di lavoro. Quando la tipografia fu occupata dai tedeschi, un austriaco scelse di aiutare gli operai divedendo la settimana a metà: tre giorni si stampava per i tedeschi, tre giorni per la Resistenza.
L’operaio Casadei, che lì lavorava, raccontò: Negli ultimi tempi preparammo anche la beffa: i tedeschi e i fascisti si rifornivano di carta a Santa Sofia e gli autocarri arrivavano a cadenza regolare in corso Diaz, davanti alla porta della tipografia. A noi toccava il compito di scaricare. Eravamo così veloci che nessuno mise mai il naso nell’andamento delle operazioni e nessuno si accorse che ogni volta le risme venivano divise: una in tipografia e una in solaio, la cui esistenza era sconosciuta ai più, una in tipografia e una in solaio… Fu così che stampammo per un anno intero sotto il naso dei nazifascisti.

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IL BOATO SCOSSE L’ALTOPIANO

Monte Lavane, capanna del partigiano

Il 17 luglio del ’44 Adriano Casadei, assieme una squadra scelta della Banda Corbari, organizzò un recupero di armi aviolanciate dagli Alleati sul Monte Lavane. I partigiani si recarono a ispezionare la zona, prepararono i segnali luminosi e attesero l’aereo che, alle 22, sorvoló l’altopiano e sganciò i paracadute. Le casse contenevano 4 mitragliatrici Breda, 90 mitra Sten, moltissime bombe a mano e 8 quintali di dinamite, assieme a divise, sigarette e generi alimentari. A ogni partigiano toccò un’arma automatica e subito iniziò la raccolta e il trasporto del materiale, coscienti del fatto che fascisti e tedeschi sarebbero giunti da lì a poco. La dinamite fu accatastata nella capanna di un pastore, oggi ricostruita come piccolo bivacco. Intanto, dalla valle, iniziò il rastrellamento dei nazi-fascisti, con lo scopo di accerchiare i partigiani e impedire le operazioni di recupero. Si dice 500 militi, saliti da tre direzioni diverse, che vennero a contatto ravvicinato con Casadei e i suoi pochi uomini.

Il combattimento fu violentissimo e durò un giorno intero, con feriti da ambo le parti. Verso le 17 Casadei dette ordine a un primo gruppo di arretrare, seguito poco dopo da a un altro. Restarono i più giovani, mossi da quell’incoscienza ribelle che li spingeva a sparare senza paura sul nemico, favorendo lo sganciamento dei compagni. Quando i fascisti furono a pochi metri, Casadei e i pochi rimasti prepararono una miccia e si gettarono lungo la scarpata retrostante, facendo saltare la capanna con tutto l’esplosivo. Il boato scosse l’altopiano, tanto che i militi si ritirarono sorpresi da tanta potenza di fuoco. Qualche giorno dopo, Casadei e il giovane partigiano Giammarchi tornarono sul posto per cercare le armi e le munizioni nascoste e gettate nei boschi prima di allontanarsi. Tutto fu caricato su 5 muli e portato alla base di San Valentino, sui monti tra Tredozio e Modigliana. L’episodio entrò nella storia come una della azioni militari più audaci della Banda Corbari.

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ALLA FINE I MORTI SARANNO 64

Tavolicci, casa dell’eccidio

Nel 1944 Tavolicci è un piccolo e isolato borgo della Romagna, raggiungibile solo attraverso sentieri o mulattiere, e conta circa 80 abitanti. Il 19 luglio, un reparto nazifascista invade l’abitato, incendiando case e uccidendo un uomo colpevole di essersi dato alla fuga. Il giorno seguente si presentano 6-7 militi che rassicurano gli abitanti e invitano a dormire tranquilli. Ma all’alba del 22 luglio il borgo è circondato da un centinaio di militi in divisa, bloccano le vie di fuga e costringono gli abitanti a uscire di casa. Si pensa a una perquisizione, anche se a Tavolicci non ci sono partigiani né armi. Gli uomini vengono legati, mentre donne, anziani e bambini rinchiusi dentro una stanza che dà sopra una stalla. Subito i militi iniziano a rubare nelle abitazioni mentre uno di questi, mascherato, irrompe nella stanza e scarica alla cieca un mitra intero, esce solo per ricaricare e rientra sparando sui corpi urlanti. Gli altri gettano bombe incendiarie nella stalla: le fiamme e il fumo salgono e i reclusi e le recluse, già colpiti dalle raffiche, muoiono bruciati vivi. Alcuni bambini riescono a salire sul tetto, due si salvano ma altri vengono mitragliati da terra.

Morirà anche Pietro, nato da soli 14 giorni, rotolato dal tetto e caduto dentro una “spularola”. Una bambina di 4 anni sarà letteralmente sventrata, un’altra gettata viva tra le fiamme. Terminata la strage, gli uomini vengono fucilati poco lontano. Lungo il percorso, i militi devastano e incendiano altre località nei dintorni, lasciando una lunga scia di sangue.

Alla fine i morti saranno 64, diciannove di questi sotto i 10 anni d’età, trasformando Tavolicci nella strage più grande della Romagna. Per tanti anni i tribunali hanno faticato a comprendere le motivazioni della strage e a trovare i colpevoli, tanto che tra amnistie e occultamenti nessuno ha realmente pagato. Nel 2004, alcuni documenti hanno finalmente individuato i responsabili nel IV Battaglione di Freiwilligen Polizei Bataillon Italien, volontari italiani che servivano le SS naziste.

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UNICA VIA DI FUGA: LO SFONDAMENTO DELLE LINEE

Purocielo, 36° Garibaldi con “Bob” al centro a petto nudo

10 ottobre 1944. I partigiani della 36° Brigata Garibaldi ‘Bianconcini’ sono raccolti tra Purocielo e Ca’ Malanca. Sono circa 700 e sono al comando di Luigi Tinti detto “Bob”. Con l’avvicinarsi del fronte cercano di congiungersi con gli Alleati ma si ritrovano accerchiati dalle truppe tedesche. Unica via di fuga: tentare lo sfondamento delle linee. La formazione parte da Ca’ Malanca ma l’attacco viene respinto. I tedeschi assaltano anche Ca’ di Gostino, sede del Comando, mentre i partigiani scendono verso la chiesa di Purocielo. La battaglia continua per tutta la giornata, la brigata tiene testa agli attacchi ma molti restano a terra.

Luigi Tinti “Bob”

I superstiti raggiungono l’infermeria di Poggio Termine di Sopra e dal crinale viene organizzata una difesa che si protrae per tutto il 12 ottobre, quando le compagnie, ricompattate, iniziano una difficile manovra di sganciamento notturno. Sarà fondamentale l’appoggio di Sesto Liverani, detto “Palì”, comandante del Distaccamento “Celso Strocchi”, che per tre notti guiderà l’intera formazione oltre le linee. Alla fine, i morti saranno 57.
Raggiunti gli inglesi, i partigiani verranno rifocillati poi disarmati e trasferiti al centro di raccolta di Firenze. I feriti e gli infermieri che non poterono seguire il grosso della formazione, saranno invece catturati dai tedeschi e torturati dalle Brigate Nere faentine. Moriranno fucilati al poligono di tiro di Bologna. Tra loro anche l’infermiera e partigiana Laura Guazzaloca, prima incarcerata a Castel d’Aiano e successivamente internata al campo di Fossoli. Morì fucilata il 23 novembre 1944.

Laura Guazzaloca

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NELLA FUGA VENGONO ACCOLTI DAGLI APPLAUSI

Autunno 1943. Una squadra di ribelli della zona della Samoggia, al comando di Francesco Donatini, si sta trasferendo verso il Monte Falterona, quando viene avvertita che tre compagni sono stati imprigionati a Rocca San Casciano. È trascorso meno di un mese dall’8 settembre e le grandi formazioni partigiane ancora non esistono, gli Alleati sono lontani, le armi scarsissime. Si decide comunque di liberarli e una squadra di quattro partigiani scende in paese.
Alle 16.00, Alvaro Mini, custode del reparto maschile sente suonare il campanello. Non vedendo nessuno dallo spioncino, apre e si ritrova la canna di un moschetto al petto. I quattro lo spingono dentro e si fanno condurre alla cella dei compagni, liberandoli e rinchiudendo il custode. Poco dopo, nella fuga attraverso la piazza, vengono accolti dagli applausi.


Il 27 marzo viene notato in paese il leggendario Silvio Corbari assieme a iris Versari, sono vestiti in modo strano, lei da uomo, e sono qui per uccidere Federico Selvaggi, segretario del fascio locale, che spesso siede al Caffè Stella. Corbari si avvicina al porticato della piazza mentre Iris si ferma alla fine del borgo. Vengono però notati dal maresciallo dei carabinieri Guglielmo Accardi che mette mano alla fondina, ma viene anticipato da Iris e freddato con quattro colpo di pistola. A Rocca San Casciano inizieranno anche le scorribande del “camion fantasma”. Un mezzo sottratto ai militi del paese che seminerá scompiglio in una vasta area attaccando caserme, posti di blocco e pattuglie nazifasciste. Un vero e proprio GAP motorizzato composto da Amerigo Donatini, Dino Ciani, Matteo Molignoni e Max Emiliani, ai quali si unirà anche Corbari.

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NOME DI BATTAGLIA STOPPA

Guido Boscherini è di Santa Sofia, lo chiamano Stoppa perché ha i capelli così chiari che ricordano il bianco della stoppa. Dopo l’8 settembre 1943 si unisce ai primi nuclei di ribelli che si stanno formando sull’appennino romagnolo, prima come staffetta poi come mitragliere. Il 5 febbraio ‘44 è nella squadra che entra a Premilcuore con un piano assurdo: sequestrare donna Edvige, sorella di Mussolini, e usarla per lo scambio di prigionieri, ma questa ha lasciato il paese il giorno prima. La squadra decide così di attaccare la caserma della milizia per procurarsi delle armi.

Stoppa si mette a mitragliare alle finestre per rispondere ai colpi dei fascisti. È sicuro, deciso, non dà tregua al nemico. Ma a un tratto si ritrova scoperto e viene colpito da una raffica. Il vaso vuole che a comandare la caserma dei fascisti, e presente allo scontro, ci sia Nello Zecchini, cugino di Stoppa. Viene concordata una tregua per recuperare il ferito, mentre arriva la notizia che i rinforzi della milizia stanno giungendo in paese. I partigiani ripiegano sui monti trasportando Stoppa su una barella di fortuna. Giungono a fatica a un podere che si chiama Tiravento, dove li accoglie una famiglia in condizioni poverissime. Alle 2 del mattino Stoppa muore. Ha 24 anni ed è il primo caduto della brigata romagnola. Sarà medaglia d’argento per meriti partigiani. La sua morte colpisce profondamente i suoi compagni, soprattutto i più giovani. Ma l’eco del sacrificio si sparge in tutta la Romagna e risuona tutt’ora, in particolare a Santa Sofia, dove ancora oggi tutti ricordano Stoppa e le strofe della canzone “Giovanna mia”, composta per ricordare il giovane partigiano e la ragazza di cui era innamorato.

Link: DOCUMENTARIO GIOVANNA MIA

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SOTTO AL LETTO 40 KG DI TRITOLO

Lo storico valico fra Romagna e Toscana era uno dei capisaldi della Linea Gotica, la linea di fortificazioni tedesche che dalla costa adriatica arrivava al Tirreno.

Furono sfruttate soprattutto le risorse naturali, realizzando camminamenti, trincee, parapetti in legno e piazzole per l’artiglieria. Molti operai della Todt, l’organizzazione a cui furono affidati i lavori, collaboravano in segreto con i partigiani asportando materiale e rallentando il lavoro con azioni di sabotaggio. Beppe Gurioli era uno di questi, lavorava al Passo del Muraglione ma teneva sotto al letto 40kg di tritolo sottratto sera per sera dal magazzino (utilizzati poi per far saltare l’arcata del ponte di San Pietro, sulla statale).

I tedeschi avevano creato un grande sbarramento alla Futa, dove si pensava sarebbe avvenuto l’attacco Alleato, ma trovarono difficoltà nel tratto tra Colla di Casaglia e Passo del Giogo, territorio della 36° Brigata Garibaldi. Fu il faentino Virgilio Neri, grande conoscitore dell’Appennino, a voler mantenere una grossa formazione in quella zona, per intralciare i lavori e mantenere la zona il più possibile libera per facilitare un varco d’accesso alla Romagna. L’offensiva Alleata iniziò a fine agosto con un grande attacco sulla costa adriatica per costringere i tedeschi a spostare il grosso delle forze, al quale seguì l’avanzata americana sulla Gotica, con lo sfondamento che avviene il 12 settembre al Passo del Giogo.

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UN LEGAME INDISSOLUBILE

Siamo a Strabatenza, piccolo borgo disabitato nel cuore delle Foreste Casentinesi, sulla sinistra del Bidente di Pietrapazza.

La canonica della chiesa di San Donato tra il febbraio e l’aprile del 1944 fu la prima sede del comando del Gruppo Brigate Romagna e da maggio sede del comando II zona dell’8ª Brigata Garibaldi. Partigiano e commissario politico del secondo distaccamento era Giorgio Ceredi, nome di battaglia Janosik, a cui è dedicato un sentiero lì attorno. La Brigata Romagnola è stata la principale formazione partigiana operante nella vecchia provincia di Forlì, che comprendeva Cesena e Rimini. Nella prima fase, sotto la guida del discusso comandante Libero, raggiunse l’effettivo di 1.000 uomini. In concomitanza con alcuni contrasti nella linea di comando, che porteranno all’eliminazione di Libero e alla sua sostituzione con Pietro, nell’aprile del ’44 la formazione viene colpita da un vasto rastrellamento nazifascista e si scompagina. Nel mese di maggio si ricostituisce e diventa ufficialmente 8° Brigata Garibaldi “Romagna” marciando dai monti alla pianura e partecipando alle operazioni di liberazione delle valli fino al 9 novembre, data della liberazione di Forlì. Nei boschi attorno a Strabatenza restano i ruderi delle case utilizzate come appoggio e rifugio. Si tratta di una zona che i partigiani attraversavano per portare a termine azioni di guerriglia e perlustrazione, e mostra il legame indissolubile con i contadini di questa terra, senza l’aiuto dei quali la sopravvivenza stessa della formazione non sarebbe stata possibile.

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NEL CASO AVESSE VINTO LA MONARCHIA

Prima e dopo la Liberazione gli Alleati ricoprirono un ruolo fondamentale, ma i contrasti con la popolazione furono spesso violenti.

Non furono pochi i casi di rissa, rapina, aggressione, stupro. Inoltre, le richieste dei partigiani di continuare a combattere risalendo l’Italia furono quasi sempre respinte, soprattutto in terre come la Romagna, dove la Resistenza era stata a maggioranza comunista. Gli Alleati dissero che non avevano più bisogno di loro. In realtà, non si fidavano, e non volevano lasciare le armi in mano a gruppi politicamente organizzati. Così, a Forlì fu fatta una cerimonia per la smobilitazione delle formazioni locali: 8ª Brigata Garibaldi, Battaglione Corbari, 29ª Brigata G.A.P., Brigata S.A.P., dove i partigiani dovettero consegnare le armi. Molti riuscirono però a nascondere fucili e munizioni e quando si giunse al referendum del 1946, per scegliere tra monarchia e repubblica, i partigiani si tennero pronti: nel caso avesse vinto la monarchia, avrebbero dissepolto le armi e fatto la rivoluzione. Ciò non avvenne e le armi restarono murate nelle cantine, nelle pareti delle fattorie, sepolte nei campi, sotto al greto dei fiumi, dove, in alcuni casi, a distanza di 80 anni, si trovano ancora.

[foto: ritrovamento nel 2020 di 462 ordigni bellici sepolti due metri sottoterra nella campagna forlivese. Tutt’ora sono il più grande ritrovamento di tutta della zona]

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