NONOSTANTE CIÒ

Dopo la guerra, all’aeroporto di Forlì furono riesumati 52 cadaveri. Erano uomini e donne rastrellati e uccisi in giugno e settembre del ’44, tra i quali ostaggi, antifascisti ed ebrei. I responsabili, facenti parte delle SS di stanza in città, furono identificati grazie a un disertore e a una foto scattata prima di abbandonare la città. Il fotografo era Duilio Zanelli, che aveva lo studio in Corso Garibaldi 13. Zanelli era stato arrestato il 19 agosto precedente per essersi rifiutato di scattare delle fotografie ai corpi della Banda Corbari appesi ai lampioni della piazza. Rimase in prigione fino al 15 settembre, denunciato per istigazione a delinquere in danno all’autorità militare germanica.
Il giorno successivo al suo rilascio, il comandante delle SS Karl Schutz e 12 ufficiali si presentarono al suo studio costringendolo a scattare una foto a ciascun ufficiale e alcuni giorni dopo una foto di gruppo. Nonostante ciò, il fascicolo con i nomi dei responsabili nel dopoguerra fu occultato e rinvenuto soltanto nel ’94 dentro al cosiddetto “armadio della vergogna”, unito ai documenti sulle inchieste per i crimini di guerra in Italia. Nel 2003 furono riaperte le indagini ma dopo aver accertato che i responsabili dell’eccidio di Forlì erano tutti deceduti o irrintracciabili, gli atti furono archiviati.

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SEMBRAVAMO OMBRE

Adriano Barbieri, estate 2024

Quello nella foto è Adriano Barbieri e tra una settimana compirà 100 anni. Nel ’44 il suo nome di battaglia era Gallo e militava tra i partigiani nella zona di Ca’ Malanca, dove operava la 36° Brigata Garibaldi “Bianconcini” al comando di Luigi Tinti, nome di battaglia Bob. In ottobre, accerchiati dai tedeschi, 700 partigiani tentarono lo sfondamento delle linee nemiche scatenando la famosa battaglia di Purocielo. Per tre giorni sostennero una durissima controffensiva, tra i mortai tedeschi e le bombe degli Alleati, appostati appena oltre le linee. Furono 57 i caduti tra i ribelli. Nonostante ciò, la notte del 13 ottobre iniziò la difficile manovra di sganciamento. A fare da guida c’era Sesto Liverani, nome di battaglia Palì, del distaccamento “Celso Strocchi”.

Partigiani della 36° Brigata Garibaldi a Ca Malanca

Così ricordò l’evento il partigiano Galassi: “Per tre notti camminammo al buio, in silenzio, in mezzo ai tedeschi. Sembravamo ombre. Non si sentiva né una parola, né lo scalpiccio dei piedi. Gli ordini dal comando venivano passati lungo la fila, fino all’ultimo. Così, presso il Muraglione trovammo gli inglesi“.
Oggi Ca’ Malanca è un luogo unico in Romagna, sede di un centro documentale sulla Resistenza e di una mostra permanente in ricordo dei tantissimi che armi in pugno si lanciarono contro i traditori fascisti. Gallo c’era quel giorno e c’era anche oggi, a ricordarci che il fascismo esiste a va distrutto. Oggi come ieri. Con ogni mezzo necessario.

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GETTATO COME UN SACCO

Questo è un vecchio pozzetto di scolo delle acque, lo si incontra sulla strada che porta a Monte Trebbio. Da qui al casolare di Ca Cornio, sulle colline tra Modigliana e Tredozio, sono circa 30 minuti, ma tagliando per i monti, forse anche meno. Nell’estate del ’44 Sante Piani è il contadino di Ca Cornio, ma è anche un antifascista, e in quel casolare, da alcuni giorni, ospita il partigiano più ricercato della Romagna, Silvio Corbari, insieme ai suoi fedelissimi Adriano Casadei, Iris Versari e Arturo Spazzoli.

L’ alba del 18 agosto i fascisti li attaccano e li annientano. Una vicenda complessa che termina poco dopo con l’esposizione dei quattro cadaveri sulla piazza di Forlì. Anche Piani cade dentro questa storia; prima che i corpi giungano a Forlì, viene costretto dai militi a caricarli e trascinarli su una treggia in direzione Castrocaro, per la pubblica impiccagione. Lungo la strada, giunti all’altezza di questo pozzetto, viene intimato l’alt.
Lì vicino partono gli automezzi perciò la treggia, e soprattutto il vecchio contadino, non servono più. Piani viene ucciso, forse anche perché riconosce tra i fascisti un volto familiare. Il suo corpo viene gettato come un sacco giù per lo scolo. Ora c’è una lapide che lo ricorda, anche se quasi illeggibile. Ottant’anni dopo, penso sia giusto ricordare anche lui.

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LA FABBRICA MANGELLI E IL SANGUE OPERAIO

Forlì, camionette e jeep in piazza Saffi

Probabilmente questa foto non la ricorda nessuno, ma ritrae le jeep della celere entrare in piazza Saffi per bloccare il camion della “carovana della solidarietà” organizzato dai lavoratori di Ravenna, giunti a Forlì per sostenere i compagni della fabbrica Mangelli in sciopero. La Mangelli fu il primo sito italiano a produrre cellophane e fibre artificiali e dagli anni ‘30 il principale complesso industriale forlivese.
La sua storia è attraversata da scioperi, occupazioni e tumulti anche durante il fascismo, quando ospitava i comitati clandestini di fabbrica e organizzava scioperi contro il regime. Uno di questi, unito alle maestranze delle altre fabbriche di Forlì, in maggioranza donne, si tramutò in corteo che nel marzo del ’44 forzò i cordoni dei militi della caserma in via della Ripa, salvando così 9 giovani dalla fucilazione. Dagli anni ’70 le lotte operaie coinvolsero tutta la città, che scese a fianco dei lavoratori e della loro salute, sempre a contatto con agenti chimici nocivi.

Nel ’72 ci fa una grande manifestazione contro il licenziamento di 847 lavoratori. A guidare la protesta erano gli oltre 200 militanti del PCI iscritti alla sezione aziendale “Quattro Martiri.” Già nel giugno del ‘49, 218 operai erano stati licenziati in blocco. Il fatto aveva scatenato la rottura con i sindacati e la decisione di occupare la fabbrica a oltranza. Un gruppo di crumiri aveva consentito però di non fermare la produzione, così gli operai e i cittadini si erano organizzati per bloccare e presidiare gli ingressi. La polizia era intervenuta con grande violenza, caricando i dimostranti e aprendo il fuoco sui lavoratori. Il bracciante Antonio Magrini era stato colpito a un braccio e l’operaia Jolanda Bertaccini era caduta a terra in gravissime condizioni, mitragliata dalla celere. Molti giornali dell’epoca la diedero per morta, ma pare sia sopravvissuta. Alla fine degli scontri, gli arresti furono oltre 120. Nel ’77 la chiusura definitiva. Oggi al suo posto c’è un centro commerciale. Resta la vecchia ciminiera in mattoni rossi, una specie di monumento che ricorda un tempo che non c’è più.

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NADIA

Giuseppina ‘Nadia’ Venturini

Aprile ‘44.
Giuseppina Venturini ha 17 anni e gira con una Beretta mod. 35, procura armi per i compagni, vestiti, cibo, medicinali. Quando 5.000 nazifascisti salgono da Biserno per attaccarli, lei è in mezzo alla battaglia e salva la vita al partigiano Benvenuto Coatti, tamponandogli una ferita con la camicia. È in montagna già da alcune settimane, dopo aver lavorato in tipografia, a Santa Sofia, e aver aiutato i soldati sbandati a rifugiarsi sui monti dietro casa. In paese la chiamano Geppi, ma nei boschi il suo nome di battaglia è Nadia.
Milita nel 3° distaccamento dell’8° Brigata Garibaldi, quello composto da russi e slavi. Li guida Sergej Sorokin, nome di battaglia Sergio, ufficiale dell’Armata Rossa, evaso da un campo di prigionia e diventato partigiano. Nadia e Sergio combattono assieme, condividono amore e pallottole fino alla Liberazione. Nel ’45 si trasferiscono all’ambasciata sovietica di Roma, dove si sposano. Hanno un figlio, Lionik. Nadia vive a con la comunità russa, ma è tempo di guerra fredda, Stalin manda Sergej in Siberia per diversi anni, Nadia vuole seguirlo, ma da occidentale sa che il suo sarebbe un viaggio di sola andata. Gli anni passano, i due si scrivono ma la censura blocca inesorabilmente ogni lettera.

Nadia e Sergej

Per 10 anni non hanno notizie uno dell’altra. Si rivedono negli anni ’60, quando la delegazione russa torna in Italia per un anniversario della Resistenza. Ma il tempo è inesorabile, si sono risposati, hanno altre famiglie e altri figli. Solo un breve contatto, qualche ricordo, e l’incontro tra Lionik e il padre, il comandante Sergio che anni prima guidava i partigiani russi in Romagna e ora porta con orgoglio la stella delle Brigate d’assalto sul petto. Nadia torna a essere la Geppi di Santa Sofia, dove si spegne nel luglio 2006, tra una sigaretta e l’altra, sempre lottando per le donne e per la libertà degli oppressi. Sergio scrive un libro di memorie, ma l’ANPI decide di non pubblicarlo perché “poco rilevante”. La sua storia abbraccia quella resistenza romagnola di cui oggi si parla ancora poco, dal comandante Libero, alla prima Repubblica Partigiana d’Italia, quella del Corniolo (ma questa è un’altra storia).

Gruppo di partigiani, alcuni stranieri, in Romagna

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RISPONDERE CON EGUALE VIOLENZA

Per rispondere alle violenze dello squadrismo, nel giugno del 1921 nacquero a Roma gli Arditi del Popolo, squadre di proletari con lo scopo di combattere il fascismo sul loro stesso terreno: quello dello scontro armato. La tendenza anarchica del movimento portò i partiti socialista, comunista e repubblicano a prenderne le distanze. In Romagna erano presenti sicuramente nel ravennate e nel riminese. Su Cesena si dice non fossero presenti, così come a Forlì, almeno secondo alcuni dirigenti comunisti che nel dopoguerra affermarono che ci furono alcune riunioni tra socialisti, comunisti e anarchici forlivesi ma alla fine non se ne fece nulla. In realtà, il 21 luglio, ‘La Romagna socialista‘ dava notizia della loro formazione anche a Forlì. Negli stessi giorni, al funerale del comunista Pietro Casadei, ucciso durante alcuni scontri a Cesena, tramite un manifesto la famiglia ringraziò apertamente le squadre comuniste e gli Arditi del Popolo.

Il 28 agosto su ‘La lotta di classe‘ si parla di loro: “Abbiamo ricevuto un elenco di sottoscrizioni per Arditi del Popolo da Forlì”, mentre lo studioso locale Elio Santarelli li descrisse come dei “gruppi paramilitari che a Forlì si costituirono nel luglio 1921 seguendo l’esempio di altre parti d’Italia”. Anche ‘Il Pensiero Romagnolo‘ ne parlò, scrivendo che “alle bande fasciste si oppongono le bande proletarie.”
Per togliere ogni dubbio, ho trovato due volantini firmati proprio dagli Arditi del Popolo forlivesi: uno (del quale ho tagliato una lunga citazione nella parte centrale) per chiamare il popolo a manifestare contro la pena inflitta agli anarchici Sacco e Vanzetti; l’altro per indignarsi dell’imminente patto di pacificazione tra socialisti e fascisti, e annunciare la nascita del movimento in città e la sua precisa finalità: “Rispondere con eguale violenza a tutte le violenze che saranno usate contro il popolo; adoperando gli stessi sistemi che finora sono stati adoperati contro di esso. La spietata ma necessaria legge del taglione sarà la nostra divisa!

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LA VIA CHE CI ADDITATE È BELLA E LUMINOSA

Il 24 marzo 1944, mentre a Roma si consumava l’eccidio delle Fosse Ardeatine, a Forlì cinque ragazzi venivano fucilati nel cortile della caserma “Ettore Muti” perché renitenti alla leva. Il lunedì seguente, sotto indicazione dei comitati clandestini di fabbrica, le operaie e gli operai delle industrie fermarono la produzione. La protesta prese forza guidata dalle donne, che contro le legge imposte dal regime si radunarono pubblicamente e in corteo raggiunsero la caserma. L’obiettivo era opporsi alla condanna a morte inflitta ad altri nove giovani. La gente affollava via della Ripa, via Giovane Italia, la piazzetta della Chiesa della Trinità fino a via Maroncelli.

Pressati dalle popolane di Borgo Schiavonia, i militi fascisti furono presi dal panico e spararono ferendo una manifestante, ma la folla non indietreggiò e aumentò la protesta nel tentativo di occupare la caserma. Si gridava “Liberate i nostri figli! Assassini! Servi dei tedeschi!” Sorpreso da tanta determinazione, il Tribunale militare sospese la sentenza e il corteo si spostò verso la prefettura, dove una delegazione di donne fu ricevuta e fece tramutare la fucilazione in carcere.

Le fabbriche cittadine intanto prolungarono lo sciopero fino al 28 marzo e la notizia si spinse fino alle città vicine. Così scrissero le operaie della fabbrica Arrigoni di Cesena sul numero di luglio di ‘Noi Donne’: “Carissime compagne di Forlì, noi donne di Cesena vi assicuriamo che l’esempio da voi datoci sarà seguito, le esortazioni e i consigli ascoltati. Faremo tutto il possibile per imitarvi, e benché giunte tardi, vi assicuriamo che sapremo riguadagnare il tempo perduto. La via che ci additate è bella e luminosa.”

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FU LUI CHE PESÒ I 50 KG D’ORO

Hans Scharinger è morto nel 1985 a neanche 80 anni. Faceva il muratore, anche se da giovane aveva studiato legge. Un anziano come tanti, che non si faceva notare.
Un po’ di anni prima, nel 1952, nella sua vita era successa una cosa, un ex ufficiale della Gestapo, passato a servizio degli americani, gli aveva proposto di diventare spia per i servizi segreti della Germania Ovest. Hans aveva risposto con entusiasmo, arrivando a dirigere il dipartimento di controspionaggio con 30 agenti al suo servizio. Conosceva bene quel lavoro, così come i comunisti che spiava per conto degli americani. Era felice di combatterli nuovamente. Anche perché, per non farsi scoprire, qualche anno prima aveva cambiato vita, nome e identità.

Durante la guerra, Hans si chiamava Karl T. Schutz, ed era un alto ufficiale delle SS, uno che dava ordini e decideva sulla vita o la morte delle persone. Tra il 1943 e il 1944 era stato anche in Italia, terra dalla quale era tornato a casa a piedi, a guerra finita, prima di fuggire da un campo di prigionia Alleato e far perdere le proprie tracce. Nel ’39 aveva partecipato con passione all’invasione della Polonia per poi dirigere le unità di spionaggio del Terzo Reich. Era bravo, metodico, preciso. Un nazista perfetto. A Roma divenne capo della polizia di sicurezza dei servizi segreti tedeschi. Fu lui che pesò i 50 kg d’oro che gli ebrei del ghetto consegnarono sperando di essere salvati. Li pesò poi spedì gli ebrei in Germania. Fu lui uno di quelli che ordinarono di sparare ai 335 ostaggi alle Fosse Ardeatine. Fu lui che, trasferito a Forlì, comandava la polizia criminale e le SS la cui sede era nell’attuale Centro per l’Impiego, ai tempi luogo di tortura e detenzione. Con la complicità dei fascisti locali fu responsabile di tutte le rappresaglie fatte nella nostra zona, compresa l’eliminazione di 19 ebrei nei pressi dell’aeroporto. Dopo la guerra fu ritenuto colpevole di ogni crimine, ma il suo fascicolo fu occultato e ritrovato anni dopo la sua morte. Una morte serena, tranquilla, libera. Quella di un uomo certo di aver fatto il proprio dovere di nazista, anticomunista, spia americana e assassino.

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CON LORO C’ERA UN ORSO ENORME LEGATO A UNA CATENA

Lungo viale dell’Appennino, tra Ca’Ossi e San Martino in Strada, c’è ancora oggi un edificio noto come Villa Gesuita. Alla fine dell’800 il palazzo era stato acquistato dal tenore Angelo Masini, ai tempi già famoso e ricchissimo. Durante gli anni ’40, il custode della villa era Enea Barzanti che assieme alla moglie e alle figlie, Isotta e Ivana, vide diversi schieramenti occupare la villa: i tedeschi, i polacchi, i gurkha, di nuovo i polacchi e infine gli inglesi. Ivana, intervistata nel 2019, raccontò una cosa che molti hanno dimenticato: “Una mattina arrivarono i polacchi e montarono le tende nel cortile, con loro c’era un orso enorme che legarono a un albero con una catena.” Ma quell’orso non era un orso qualunque, il suo nome era Wojtek ed era a tutti gli effetti un soldato.

Nel marzo del ’43, mentre l’armata polacca si stava addestrando nel nord dell’Iraq per poi essere impiegata in Italia a fianco degli inglesi, due soldati incontrarono un ragazzo curdo che aveva con sé un cucciolo d’orso. Wojtek fu subito adottato dalla Compagnia diventando una specie di mascotte. I soldati gli insegnano la lotta e anche il saluto militare. Il giorno della partenza, però, ci si accorse che Wojtek non poteva salpare. Le regole di reclutamento britanniche erano chiare: soltanto i soldati potevano salire a bordo di una nave militare. Così, l’orso fu ufficialmente arruolato come soldato semplice e assegnato alla 22ª Compagnia Rifornimenti di Artiglieria. Alto ormai due metri e pesante 250 kg, Wojtek aiutò a trasportare le casse di munizioni durante diversi combattimenti, tra i quali la battaglia di Cassino, e per il suo coraggio fu promosso a caporale.

Per celebrarlo, la 22° Compagnia adottò un distintivo che lo ritrae mentre trasporta un grosso proiettile. Lo stemma fu dipinto anche sui veicoli militari. Wojtek viveva con i suoi commilitoni, mangiava e dormiva con loro, masticava il tabacco e si dice amasse la birra. Assieme a lui, l’esercito polacco entrò a Predappio, a Forlì, a Brisighella e a Faenza. Dopo il conflitto, il 15 novembre 1947, il suo reparto fu smobilitato e Wojtek fu trasferito allo zoo di Edimburgo. Morì il 2 dicembre 1963, all’età di 21 anni.

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LI SORPRESERO ALL’ALBA

Sirio Corbari, Adriano Casadei, Iris Versari, Arturo Spazzoli, Tonino Spazzoli

Li sorpresero all’alba del 18 agosto nel casale di Cornio, sulle colline tra Modigliana e Tredozio. Iris, già ferita a una gamba, si tolse la vita sperando di agevolare la fuga dei compagni, mentre Arturo fu colpito e catturato quasi subito. Silvio, saltando da una finestra, si ferì gravemente e Adriano, già salvo, decise di non abbandonarlo, tornando indietro e restando con lui fino alla fine. Il corpo senza vita di Iris fu trascinato per i capelli fuori dalla casa e gettato sull’aia. Durante il tragitto verso Castrocaro, i fascisti uccisero Arturo perché infastiditi dai suoi lamenti e una volta in paese, impiccarono Silvio e Adriano. Il corpo di Iris giunse poco dopo, disteso su una scala appoggiata su un’auto. I corpi dei quattro partigiani furono poi trasferiti a Forlì e appesi una seconda volta ai lampioni di Piazza Saffi, per mostrare a tutta la Romagna che l’imprendibile Corbari, la ribelle Iris Versari e gli amici Adriano Casadei e Arturo Spazzoli erano stati uccisi.

I fascisti sorridevano e facevano apprezzamenti sulle lunghe gambe di Iris, mentre la popolazione osservava inorridita. Il giorno dopo li portarono al cimitero e li chiusero in quattro bare con i cappi ancora al collo e le mani legate. Sulle casse furono scritti i loro nomi, soltanto quella di Iris fu calata nella fossa senza nome. Un becchino scrisse solamente “donna”.
Mia nonna c’era, non era in piazza e non era al cimitero, ma ricordo che un giorno, prendendo tra le mani un libro sulla Banda Corbari, disse “Io me lo ricordo quel giorno, ma in piazza non ci sono andata, perché sapevo che avevano impiccato una donna, e una donna trattata così non era una cosa da andare a vedere.”

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