
Aprile ‘44.
Giuseppina Venturini ha 17 anni e gira con una Beretta mod. 35, procura armi per i compagni, vestiti, cibo, medicinali. Quando 5.000 nazifascisti salgono da Biserno per attaccarli, lei è in mezzo alla battaglia e salva la vita al partigiano Benvenuto Coatti, tamponandogli una ferita con la camicia. È in montagna già da alcune settimane, dopo aver lavorato in tipografia, a Santa Sofia, e aver aiutato i soldati sbandati a rifugiarsi sui monti dietro casa. In paese la chiamano Geppi, ma nei boschi il suo nome di battaglia è Nadia.
Milita nel 3° distaccamento dell’8° Brigata Garibaldi, quello composto da russi e slavi. Li guida Sergej Sorokin, nome di battaglia Sergio, ufficiale dell’Armata Rossa, evaso da un campo di prigionia e diventato partigiano. Nadia e Sergio combattono assieme, condividono amore e pallottole fino alla Liberazione. Nel ’45 si trasferiscono all’ambasciata sovietica di Roma, dove si sposano. Hanno un figlio, Lionik. Nadia vive a con la comunità russa, ma è tempo di guerra fredda, Stalin manda Sergej in Siberia per diversi anni, Nadia vuole seguirlo, ma da occidentale sa che il suo sarebbe un viaggio di sola andata. Gli anni passano, i due si scrivono ma la censura blocca inesorabilmente ogni lettera.

Per 10 anni non hanno notizie uno dell’altra. Si rivedono negli anni ’60, quando la delegazione russa torna in Italia per un anniversario della Resistenza. Ma il tempo è inesorabile, si sono risposati, hanno altre famiglie e altri figli. Solo un breve contatto, qualche ricordo, e l’incontro tra Lionik e il padre, il comandante Sergio che anni prima guidava i partigiani russi in Romagna e ora porta con orgoglio la stella delle Brigate d’assalto sul petto. Nadia torna a essere la Geppi di Santa Sofia, dove si spegne nel luglio 2006, tra una sigaretta e l’altra, sempre lottando per le donne e per la libertà degli oppressi. Sergio scrive un libro di memorie, ma l’ANPI decide di non pubblicarlo perché “poco rilevante”. La sua storia abbraccia quella resistenza romagnola di cui oggi si parla ancora poco, dal comandante Libero, alla prima Repubblica Partigiana d’Italia, quella del Corniolo (ma questa è un’altra storia).
